Primi approcci al documentario italiano. Di Adriano Aprà

Adriano Aprà, critico e saggista cinematografico, autore di documentari.

Si potrebbe cominciare dicendo: il documentario italiano non esiste. Nella patria del neorealismo, le riflessioni critiche e storiche (1) e le esperienze pratiche in questo campo hanno lasciato tracce scarsissime. Nessuna “scuola” è emersa e sono molto pochi gli autori di cui si ricordi il nome. Se poi si considera la televisione, che dovrebbe incentivare la realizzazione di documentari, bisogna constatare che essa, da questo punto di vista, è troppo spesso in mano a incompetenti.
Il documentario è in Italia un’attività marginale e marginalizzata. Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una “terra di nessuno”, senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana “assenza” del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po’ diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po’ anche all’ostinazione di alcuni critici isolati); dall’altra l’assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo.

La prospettiva sul documentario cambia tuttavia radicalmente se si considera la quantità dei film prodotti per il cinema che si possono far rientrare sotto tale definizione. Precisiamo però subito che si tratta di cortometraggi, cioè di film della durata media di 11’ (sono assai rari i casi in cui viene superato il metraggio minimo previsto dalle varie leggi che si sono succedute dall’anteguerra per l’erogazione di percentuali sugli incassi e di premi di qualità). Un calcolo approssimativo dei cortometraggi ammessi alla programmazione obbligatoria (ai quali andrebbero aggiunti quelli non ammessi per avere il totale della produzione) dà le seguenti cifre: 500 circa per gli anni 1932-1943, con un aumento della produzione – per quanto riguarda i cortometraggi specificamente destinati alla programmazione nelle sale in abbinamento con i lungometraggi – negli anni 1941-1943; addirittura più di 14.000 (senza contare i documentari industriali e quelli, per varie ragioni, non presentati ai premi o, addirittura, in censura) per gli anni 1945-1995, con medie di 5-600 l’anno negli anni cinquanta (e una punta di più di 1.000 nel 1955), che scendono gradualmente dopo la legge del ‘65, la quale prevede premi di qualità e non più percentuali sugli incassi per i produttori, a 220 fino al ‘73 e a 100-150 dal ‘74 a oggi (2). Ho parlato di programmazione obbligatoria, ma va subito precisato che se essa viene rispettata negli anni del fascismo, lo è gradualmente sempre di meno negli anni successivi, fino a non esserlo affatto dagli anni settanta in poi. Il paradosso, e lo scandalo, del cortometraggio è in effetti di essere un genere protetto e praticamente finanziato dallo stato ma “invisibile” (e di solito sgraditissimo al pubblico per la sua mediocrità). Ciò nonostante il cortometraggio esiste: perché è conservato presso la Cineteca Nazionale, soprattutto, per ragioni di legge, dal ‘65 in poi (circa 5.000 cortometraggi, ma in copia unica, quindi difficilmente visionabili), presso l’Istituto Luce (molto di ciò che è stato realizzato durante il fascismo, in particolare), presso altri archivi pubblici o privati e presso i produttori ancora attivi. Ci sono poi i documentari di lungometraggio, prodotti soprattutto negli anni cinquanta e sessanta (film di montaggio, documentari di viaggio o esotici, film-inchiesta, documentari “sexy”), ma il loro numero non raggiunge il centinaio. Difficile è invece calcolare ciò che è stato prodotto per la televisione in campo documentario, sia come “servizi” all’interno di rubriche (cortometraggi) sia come “special” (lungometraggi) sia come serie: un’indagine accurata in questo campo sterminato potrebbe riservare sorprese.

Non ho fatto calcoli per quanto riguarda il periodo muto, di cui tuttavia non mi occupo in questo saggio per mancanza di conoscenza diretta (come non mi occupo, se non di sfuggita, di quei documentari o cortometraggi che sfuggono alla definizione più tradizionale: film sull’arte, scientifici, didattici, industriali, pubblicitari, di animazione, sperimentali, amatoriali). Il documentario è comunque presente fin dalle origini. Si registrano documentari “dal vero”, di viaggio, di guerra, scientifici; emergono le personalità di Giovanni Vitrotti, di Luca Comerio, di Roberto Omegna (il primo e il terzo attivi anche in periodo sonoro; e ricordo che i documentari di Comerio sono stati riutilizzati da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi per degli originalissimi “film di montaggio”, fra cui soprattutto Dal Polo all’Equatore, 1986, e che Virgilio Tosi ha realizzato nel 1974 il documentario di mediometraggio Un pioniere del cinema scientifico: Roberto Omegna).
Un impulso decisivo alla produzione documentaria viene dato dalla fondazione nel 1925 de L’Unione Cinematografica Educativa (Luce), nazionalizzata nel 1926 e che dal 1927 produce, accanto a cortometraggi di carattere soprattutto educativo-didattico e propagandistico, un cinegiornale (la legge del 1926 garantisce al Luce il monopolio dell’informazione cinematografica e sancisce l’obbligo di programmare nelle sale il cinegiornale).

Il documentario sonoro (1932-1943)
Mentre prosegue l’attività del Luce, un apporto fondamentale alla realizzazione di cortometraggi documentari destinati in primo luogo alla programmazione nelle sale è dato dalla Cines, la più importante casa di produzione di lungometraggi degli inizi del sonoro. In particolare, sotto la direzione di Emilio Cecchi (1932-1933) vengono realizzati 17 cortometraggi affidati a cineasti allora alle prime armi: Blasetti, Vergano, Matarazzo, Poggioli, Barbaro, Perilli e altri (3). Fra quelli che ho visto, il migliore è di gran lunga Il ventre della città (1933), unica regia cinematografica del pittore Francesco Di Cocco, sul mattatoio e i mercati generali di Roma, colti sul vivo e spesso di nascosto. Non c’è voce off – anche se una musica “illustrativa” ne sostituisce un po’ la funzione – ma, come avviene quasi sempre nei documentari italiani, non c’è non dico suono diretto ma neppure suono d’ambiente. Qualche suono d’ambiente c’è nell’analogo (dal punto di vista della scelta realistica) ma inferiore Cantieri dell’Adriatico (1932) di Umberto Barbaro, girato nei cantieri navali di Monfalcone e nelle fonderie di S. Andrea a Trieste. Sorprendente è invece l’uso del suono diretto in Campo de’ fiori (1933), un cortometraggio Luce sulla omonima piazza romana, senza indicazione di regista nei titoli di testa (come era allora abitudine al Luce), rovinato purtroppo da un montaggio rabberciato.

Nel 1933 avviene al Luce una radicale trasformazione sotto la presidenza di Giacomo Paulucci di Calboli Barone, che comporta una migliore organizzazione nella produzione dei cinegiornali e dei documentari. Ma la diffusione di questi ultimi nelle sale, al di fuori di circuiti specializzati, dev’essere assai limitata se ancora nel 1938 si lamenta sulle pagine delle riviste di cinema la latitanza dell’Italia in questo settore. Di fatto, sono le sezioni cinematografiche dei Gruppi Universitari Fascisti (Cine-Guf) a ereditare non solo l’attività amatoriale dei cineclub ma anche quella della Cines nel campo del cortometraggio.
I Cine-Guf vengono fondati nel 1933 su iniziativa di Galeazzo Ciano, allora ministro per la Stampa e Propaganda. Ma già dal 1932 è attivo a Venezia nella realizzazione di film amatoriali Francesco Pasinetti, affiancato dal suo operatore Mario Damicelli. La produzione dei Cine-Guf, in 16mm e muta, viene presentata a livello nazionale, e premiata, nei Littoriali della Cultura e dell’Arte, che dal 1935 aprono una sezione cinema. Emergono così i nomi di molti dei futuri documentaristi del Luce: Pietro Francisci a Roma, Giorgio Ferroni e Domenico Paolella a Napoli, Giovanni Paolucci e il futuro operatore (e occasionalmente regista) Piero Portalupi a Genova, Fernando Cerchio a Torino.

Intanto al Luce cominciano a farsi notare Corrado D’Errico e Giorgio Ferroni. D’Errico (1902-1941), regista teatrale, commediografo, giornalista, lavora agli inizi con Camerini (Kif Tebbi, 1928; Rotaie, 1929-31), realizza dal 1935 undici lungometraggi di finzione a quanto sembra mediocri, ma che non ho visto, ed è uno dei primi collaboratori del Luce, diventando responsabile dei cinegiornali e in particolare della Rivista Luce (1934-36): sei o sette numeri, secondo Argentieri assai pregevoli (4). Benché non firmati, sono attribuibili a lui, sempre secondo Argentieri (5), almeno due cortometraggi: Stramilano (1927), uno spigliato “colpo d’occhio” sulla città vista nella sua modernità e non privo di qualche momento sperimentale alla Ruttmann, e il meno originale Ritmi di stazione (1933). Giorgio Ferroni entra al Luce nel 1934, dapprima come montatore, poi come regista (Pompei, 1936) e come capo del reparto turistico (1937); in tale veste è tra i primi a considerare il documentario come opera creativa e d’autore e a far uscire il Luce dall’anonimato delle riprese estemporanee di “attualità” a cui il genere sembrava confinato.

Un contributo decisivo alla promozione del cortometraggio d’autore è la fondazione nel 1938 della Incom (Industria Corto Metraggi). Ne è promotore il giornalista Sandro Pallavicini, che si avvale per la direzione tecnico-artistica di Ferroni (che ritorna poi al Luce dal 1940 al 1943 come consulente tecnico-artistico e direttore del reparto documentari, oltre che come regista), e di Paolella come collaboratore. La Incom interviene in tutta evidenza a riempire un vuoto del Luce in questo campo, anche se è sempre il Luce a distribuirne i prodotti. E’ probabilmente la sua presenza di fatto sul mercato a suggerire una legge del novembre 1941 che, oltre a sancire l’obbligo di programmazione nelle sale dei documentari, riconosce la possibilità che il 30% della produzione sia realizzato da case diverse dal Luce. Di fatto, una produzione diciamo indipendente, a parte la Incom, si manifesta anche prima del 1941, con carattere probabilmente sporadico ma qualitativamente rilevante. Del 1938 è Fontane di Roma di Mario Costa, su musiche di Respighi, prodotto dalla Romulus-Lupa, un esperimento che Costa prosegue con Pini di Roma (1941) della Vela; entrambi i film sono presentati al Festival di Venezia con successo. Nel 1939 vi viene addirittura premiato un film prodotto dalla Lumen Veritatis, Il pianto delle zitelle di Giacomo Pozzi Bellini, un fotografo che ha avuto peraltro solo occasionali rapporti col cinema. Del 1939 o del 1940, distribuito nel 1941, è Il ruscello di Ripasottile di Rossellini, un documentario oggi perduto prodotto dalla Excelsior-Safa (6.) A Milano emerge la Dolomiti Film, che raccoglie un gruppo di giovani fra cui spicca Luciano Emmer; i loro film sono Il covo (1941) di Vittorio Carpignano, efficace rievocazione dei primordi del fascismo (il “covo” è l’ufficio in cui si redigeva agli inizi Il Popolo d’Italia), La sua terra (1941) di Emmer (che con la moglie Tatiana Grauding ha anche collaborato al film precedente) e Enrico Gras, su Predappio, il paese natale di Mussolini, Racconto da un affresco (1938-1941), Il paradiso terrestre (1941) e Romanzo di un’epoca (1942) di Emmer- Grauding-Gras, tre originali film d’arte su Giotto, Bosch e la belle époque, e altri ancora. Grazie quindi al Luce, alla Incom e alle altre iniziative private, il documentario si impone in Italia fra il 1938 e il 1943. Quali sono le caratteristiche di questa produzione documentaristica?

Va subito detto che la tendenza del “colto sul vivo” che si può intravedere tra la fine del muto e gli inizi del sonoro resta (e resterà per molti anni, anche nel dopoguerra) un fatto sostanzialmente sporadico. La ragione, a mio avviso, è che il suono diretto (7) è il grande rimosso del documentario italiano, il che limita l’emergere di un realismo immediato. Dominano, a integrazione delle immagini, il commento fuori campo e la musica “illustrativa”. L’assenza di commento, o la sua riduzione al minimo indispensabile, è quasi sempre il segnale, ora e dopo, di un’ambizione d’autore. Non c’è commento in Milizie della civiltà (1941) di D’Errico, in Piccioni di Venezia (1942) e Venezia minore (1942) di Pasinetti, in Le Cinque Terre (1942) di Paolucci, ed è ridotto al minimo in Comacchio (1942) di Cerchio e in Gente di Chioggia (1943) di Basilio Franchina.;Rari sono poi i casi in cui la voce fuori campo è “pensata” in quanto tale: in Fantasia sottomarina (1938-40, Incom) di Rossellini e in Pronto!?! Chi parla? (1942) e La storia di ogni giorno (1942) di Damicelli essa assume una valenza parodica o ironica, quasi dialogica con lo spettatore, mentre in I figli del carbone (1939, Incom), sui derivati del carbone, un film industriale di Ferroni, la sua sovrabbondanza e la sua velocità vanno di pari passo con la densità informativa e col ritmo incalzante del montaggio. C’è eccezionalmente del suono diretto nella prima e nella terza parte di Milizie della civiltà e in La gondola (1942) di Pasinetti, ma nella maggior parte dei casi manca perfino il suono d’ambiente.

Le immagini dei documentari sono tendenzialmente mute. Questo mutismo determina l’estetica del documentario italiano, che è quella dell’immagine “preziosa”. Tale preziosismo può manifestarsi sui versanti opposti dell’“eroico” e del “poetico” ma non cambia sostanzialmente. E’ assai probabile che il metraggio breve spinga i cineasti a considerare ogni inquadratura come una sintesi, perché non c’è tempo per l’analisi, a guardare la realtà più per la sua eccezionalità che per la sua quotidianità, a filmare la natura, i monumenti o il lavoro con un’enfasi o con un’estasi “a priori”, che prescinde da ogni volontà di avvicinarsi alle cose per ciò che esse sono. In Milizie della civiltà il tono quotidiano della prima e dell’ultima parte (la vita nel villaggio operaio dell’E42, cioè il quartiere dove si costruiscono gli edifici dell’Esposizione Universale prevista per il 1942 a Roma e annullata dalla guerra – l’attuale quartiere EUR) viene contraddetto dalle carrellate e panoramiche epiche sulle architetture in stile “antico romano” di Marcello Piacentini della parte di mezzo. In Castel S. Angelo (1939, Incom) di Paolella, La fontana di Trevi (1941) di Cerchio, I tre rioni (1942) di Ubaldo Magnaghi, Roma è vista “sotto vuoto” e le sue bellezze esaltate con inquadrature solenni. Un po’ di vita sembra insinuarsi solo in Via Margutta (1941) di Raffaele Saitto. Su un versante solo apparentemente opposto, gli “umili” di Comacchio, Le Cinque Terre e Gente di Chioggia sono ritratti con inquadrature “sacralizzanti”; nonostante l’interesse sincero dei registi per un mondo così poco rappresentato dal cinema, c’è in questi documentari qualcosa dello sguardo estetizzante e aristocratico sui poveri che caratterizzerà La terra trema. Nel documentario programmaticamente antimonumentale di Pasinetti, Venezia minore, il coro finale dell’Agnus Dei sancisce la santificazione, e in tale senso la monumentalizzazione, anche degli aspetti meno noti della città. Prevale insomma nel documentario italiano, anche negli esempi migliori (Comacchio, Venezia minore, Le Cinque Terre, Milizie della civiltà), una tradizione antidocumentaria. Moravia distingue nel cinema italiano due tradizioni prevalenti: quella che rimanda all’opera lirica e quella che rimanda al teatro dialettale. E’ la prima che vediamo in atto negli esempi citati.

La seconda tradizione, quella che privilegia il “piccolo” senza pretendere di ingigantirlo, si fa luce in pochi tra i film che ho potuto vedere. In Fantasia sottomarina (e probabilmente anche in Il ruscello di Ripasottile) la metafora bellica diventa parodica una volta applicata ai pesci. Per quanto riguarda il famoso Il pianto delle zitelle8, si tratta dello scarno reportage, canti e suoni diretti compresi, del tradizionale e impervio pellegrinaggio dal paesino di Vallepietra, ai confini tra Lazio e Abruzzo, al santuario della Trinità sul Monte Autore, che si svolge nella prima domenica di Pentecoste (lo stesso pellegrinaggio filmato nel 1958, a colori, da Gian Vittorio Baldi nel suo non molto dissimile Il pianto delle zitelle); oggi vederlo non fa una grande impressione, ma è certamente un film diverso, se non unico, sia come genere sia come tema, rispetto ai documentari dell’epoca. Emmer si avvicina a Giotto e Bosch in Racconto da un affresco e Il paradiso terrestre “narrativizzandoli” secondo una linea realistica e quotidiana, senza voce fuori campo (nel primo ci sono solo poche battute dai Vangeli che danno voce ai personaggi dell’affresco) e con musiche classiche che la sostituiscono.

Molto elaborati, e sorprendenti, sono i due documentari di Damicelli, Pronto!?! Chi parla? e La storia di ogni giorno, ambientati a Milano, il primo sulla Società telefonica e le telefoniste, il secondo sui tram. Mario Damicelli (1913-1991) debutta nel 1932 come peratore di Pasinetti nel Cine-Guf di Venezia, per il quale realizza anche come regista Ritmi di una grande città; dal 1934 al 1943 è operatore di guerra per il Luce, specializzato in riprese aeree; dal giugno 1944 al maggio 1945 è operatore al seguito della Quinta Armata USA; dal 1946 al 1948 è corrispondente per il cinegiornale “La Settimana Incom”; è operatore di cortometraggi (Comacchio, Milizie della civiltà) e, dopo la guerra, anche di lungometraggi; come regista, e operatore realizza quattro cortometraggi fino al 1943 (l’ultimo, Accendiamo un fiammifero, è per ora irreperibile) e almeno una decina nel dopoguerra. In entrambi i cortometraggi che ho visto è presente uno stile preciso, un ritmo veloce e disinvolto, un tono ironico che fa pensare a Camerini e Clair per l’affettuoso disegno di piccoli personaggi e situazioni minime che rendono vivo il proposito “documentario” (al contrario di ciò che accade in due analoghi documentari della Incom su forme di lavoro collettivo, peraltro interessanti e per l’epoca “moderni”, come Edizione straordinaria, 1941, di Pietro Francisci, su come nasce, a Milano, un numero del “Popolo d’Italia”, e La grande voce, 1941, di Domenico Paolella, sulla pubblicità). Quanto al realismo, che dovrebbe essere la linfa vitale del documentarismo, esso non va rintracciato nei cortometraggi ma semmai in qualche servizio dei cinegiornali Luce (ne sono stati realizzati più di 1.000 muti dal 1927 al 1931 e più di 2.000 sonori dal 1931 al 1943, oltre a 53 realizzati a Venezia durante la Repubblica di Salò dall’11 ottobre 1943 al 18 marzo 1945; e sono oggi conservati al 90%), nonché in certi cortometraggi giornalistici (ne ricordo almeno uno, Dall’acquitrino alle giornate di Littoria, 1934, sulle bonifiche) e nei documentari di guerra (per esempio La battaglia dello Jonio, 1940). In questi casi il realismo sia visivo che meno spesso sonoro impregna i materiali al di là dei propositi propagandistici, per una necessità per così dire ontologica. Una summa di questo cinegiornalismo è il lungometraggio Il cammino degli eroi (1936) di Corrado D’Errico, montaggio assai efficace dei materiali Luce sulla guerra d’Abissinia.

Questo “realismo di guerra” traspare con ancor maggiore evidenza e consapevolezza in alcuni film di finzione, che debbono qualcosa alle origini documentaristiche dei loro registi. A parte il sopravvalutato Acciaio (1932) di Walter Ruttmann e Vecchia guardia (1934) di Blasetti, e a parte Ossessione (1942-43) di Visconti, è in questo tipo di film che si possono individuare le radici della scuola realistica, o neorealistica, del dopoguerra. Francesco De Robertis (1902-1959), ufficiale di marina, ideatore e coordinatore del Centro Cinematografico del Ministero della Marina, debutta nel 1940 con il notevole cortometraggio di guerra Mine in vista e realizza con la Scalera, senza mai firmarli, i lungometraggi Uomini sul fondo (1940), Alfa Tau! (1942, il migliore) e Uomini e cieli (1943), oltre a supervisionare il primo lungometraggio di Rossellini, La nave bianca (1941).
Quest’ultimo prosegue la sua “trilogia della guerra”, dopo il film sulla marina, con il film sull’aviazione, Un pilota ritorna (1942, il migliore) e quello sull’esercito, L’uomo dalla croce (1943), lasciando spazio all’improvvisazione e alla “durata” degli eventi, con un metodo di lavoro opposto a quello di De Robertis, che gira con attori non professionisti e in ambienti reali ma prevedendo meticolosamente ogni inquadratura in uno storyboard. Infine Mario Baffico, che esordisce nel cinema come cofondatore del Cineclub di Milano (1929), come giornalista e come documentarista, realizza I trecento della settima (1943), suo quinto lungometraggio, in coproduzione col Luce, un episodio della guerra d’Albania reso in maniera sobria e antiretorica.

Il dopoguerra
La situazione relativamente compatta del documentario fino al 1943 si sfalda nel dopoguerra. La fine del monopolio Luce vede nascere moltissime case di produzione di cortometraggi che si avvalgono del tempestivo decreto legge “protettivo” dell’ottobre 1945, che riserva loro il 3% dell’introito lordo degli spettacoli. Le leggi successive del ‘47 e del ‘49 ritoccano questo principio senza variarlo nella sostanza. Il produttore si trova grazie a esse in una situazione privilegiata: ha garantito un incasso che può anche diventare cospicuo se il suo cortometraggio viene abbinato a un lungometraggio di successo (grazie anche ad accordi “privati” con gli esercenti); e si sente in qualche modo autorizzato, in mancanza di controlli, a ridurre al minimo i costi di produzione. I cortometraggi non superano quasi mai gli 11’ della bobina da 300 metri, utilizzano pochissimo negativo e prevedono assai di rado riprese fuori sede (cioè il più delle volte fuori Roma) che aumenterebbero i costi. La legge del ‘49 riserva una percentuale supplementare per cortometraggi “di eccezionale valore tecnico e culturale”, che in pratica è un incentivo per girare sempre più spesso a colori, e più tardi anche in cinemascope, in anticipo rispetto al lungometraggio (ma c’erano stati esperimenti, prima in Technicolor e poi con procedimenti italiani, fin dal 1935).
In pratica alcune case (Edelweiss, Documento, che dal 1952 produce anche lungometraggi, Incom e Astra, che producono anche i cinegiornali “La Settimana Incom” e “Mondo libero”) si assicurano l’80% dei contributi statali grazie ai loro appoggi governativi (e anche perché a volte acquistano a poco prezzo cortometraggi altrui non ammessi alla programmazione obbligatoria e che, casomai rimanipolati, vengono successivamente ammessi). Altre case (Universalia, Lux, Cortimetraggi di Milano) tentano coraggiosamente la strada del cortometraggio di qualità. Il Luce ricomincia già nel 1946 a produrre come Luce Nuova (è suo il documentario che vince il primo Nastro d’argento, La Valle di Cassino di Paolucci), è poi messo in liquidazione nel 1947, ma viene subito ridimensionato con appositi finanziamenti per produrre solo cortometraggi, spesso di ispirazione governativa. Nel 1955, quando sta per scadere la legge del ‘49, si arriva a produrre 1.132 cortometraggi.

La nuova legge del ‘56 (anno in cui si producono solo 225 cortometraggi) e le successive del ‘59 e del ‘60, fino a quella del 1965, cambiano un po’ le cose introducendo premi di qualità in numero limitato per i produttori e abbuoni erariali per gli esercenti. Di conseguenza, il numero dei cortometraggi prodotti si riduce.
Data la quantità dei cortometraggi prodotti dal 1945 a oggi (più di 14.000), è assai difficile fare discorsi complessivi che non siano generici. Stando ai giudizi dell’epoca e a quel po’ che io stesso ho fatto in tempo a vedere nelle sale, si può dire che la gran parte di questa produzione è qualitativamente mediocre e contenutisticamente conformista. Ho tentato in questi ultimi anni di scandagliare questo mondo sommerso alla ricerca della qualità e ho individuato registi che hanno cercato di fare del buon cinema nonostante la riluttanza dei produttori e la frustrazione di fronte a un pubblico aleatorio o inesistente. Si tratta senza dubbio di una minoranza che però, anche se solo retrospettivamente, consente di delineare un percorso del documentarismo italiano che non sia solo un lamento funebre.

Tra i documentaristi che hanno esordito nel periodo precedente, proseguono la loro attività, a volte con incursioni nel lungometraggio, Paolucci, Paolella, Francisci, Cerchio, Ferroni, Damicelli, ma senza risultati di rilievo, stando almeno alle cose scritte all’epoca. Glauco Pellegrini e Michele Gandin, che esordiscono negli ultimi anni di guerra, vengono invece notati per i loro documentari d’arte (il punto di arrivo del lavoro di Pellegrini in questo campo può essere considerato La porta di San Pietro di Giacomo Manzù, 1959-64). Blasetti, instancabile esploratore di ogni possibilità del cinema, continua ad alternare ai lungometraggi qualche cortometraggio, per la verità piuttosto convenzionale (il migliore è Ippodromi all’alba, 1950). Emmer rientra in Italia dopo un esilio in Svizzera, dove viene scoperto dalla critica francofona, e continua a realizzare notevoli documentari sull’arte – ma non solo: Bianchi pascoli (1947), sui cimiteri di guerra, La leggenda di Sant’Orsola/La légende de Sainte Ursule (1948), su Carpaccio, e Romantici a Venezia/Venise et ses amants (1948), gli ultimi due con commento di Cocteau, Isole nella laguna (1948) – tutti con Gras -, Goya (1950), e i più lunghi, e a colori, Leonardo da Vinci (1952) e Picasso (1954); Emmer debutta nel lungometraggio nel 1950 con Domenica d’agosto ma senza abbandonare la produzione documentaristica. Pasinetti continua la sua serie molto apprezzata di cortometraggi su Venezia (Piazza San Marco, 1947, e Il giorno della Salute, 1948, vengono premiati alla Mostra di Venezia), oltre a realizzare diversi documentari scientifici; ma muore prematuramente nel 1949. La sua scomparsa produce un unanime rimpianto; ma i suoi film, rivisti oggi, sono spesso deludenti.

Il predominio dello stile: Antonioni, Zurlini, Andreassi Il trait d’union fra anteguerra e dopoguerra può essere considerato Gente del Po di Michelangelo Antonioni. Progettato fin dal 1939, questo documentario viene girato per il Luce nel 1943, ma parte del materiale risulta inutilizzabile per un errore di sviluppo (il regista pensa però a un boicottaggio). Recuperato il materiale a Venezia dove il Luce si è trasferito durante la Repubblica di Salò, Antonioni monta le parti sopravvissute nel 1947. Previsto per una durata di 20-25’, ora Gente del Po dura solo 11’. Il rapporto fra uomo e paesaggio rimanda a Comacchio, Le Cinque Terre, Gente di Chioggia; ma il preziosismo estetico di quei documentari è superato da Antonioni grazie a una maggiore coscienza realistica unita a uno stile più preciso. I successivi N.U. (1948) e L’amorosa menzogna (1949) si impongono all’attenzione della critica per il loro evidente controllo stilistico (entrambi vengono premiati col Nastro d’argento del Sindacato giornalisti cinematografici).
La linea antonioniana – un realismo trasceso dallo stile – viene proseguita in minore dal suo aiuto regista Francesco Maselli, che tende però a sovrapporre in maniera stridente elementi di critica sociale alla ricerca formale, come in Zona pericolosa (1952), mentre più riusciti sono certi schizzi di mestieri umili, come Fioraie (1952). Sulla scia di N.U. si colloca anche Valerio Zurlini. Soggetti dei suoi documentari sono la città (Roma) e le sue periferie, i mestieri umili, le facce anonime di uomini e donne; il paesaggio urbano interagisce “architettonicamente” col personaggio in primo piano; voce fuori campo (spesso ridotta al minimo) e musica vengono utilizzate in maniera molto intelligente; è costante la tensione del materiale documentario verso una minifiction (Racconto del quartiere, 1950, Il mercato delle facce, 1952, Soldati in città, 1953), con l’eccezione di La stazione (1953), l’unico dove la realtà colta sul vivo, e spesso di nascosto, emerge sulla elaborazione formale altrove dominante.
Più complessa, e tutta da riscoprire, è la personalità di Raffaele Andreassi, attivo dal 1949 nel cortometraggio “d’autore”, nel film sull’arte, nel film-inchiesta e, dagli anni settanta, in televisione. Conosco solo una piccola parte della sua ampia produzione, quanto basta però a collo carlo fra i maggiori documentaristi italiani. La maggior parte dei cortometraggi che ho visto è priva di voce fuori campo, c’è un uso elaborato del suono d’ambiente o diretto e la musica è impiegata con molta discrezione; il punto di partenza documentario è annullato o trasceso da un tensione lirica affidata a immagini e suoni laconici, quasi astratti; Andreassi lavora più sui vuoti che sui pieni (in questo senso è antonioniano); nulla è dichiarato, tutto è suggerito in cortometraggi esemplari per rigore stilistico come Agnese (1959), La città calda (1959), Bambini (1960), Amore (1963), Gli animali (1965), L’orizzonte (1968). Un raro esempio di cinéma-vérité “ricostruito” con personaggi reali e suono in presa diretta è I piaceri proibiti (1963; il titolo originale era L’amore povero, ma si è preferito distribuirlo con un titolo più commerciale sulla scia dei documentari sexy allora di moda); si tratta di un lungometraggio in sette episodi – particolarmente riusciti Il padre e La borsetta – dove situazioni scabrose vengono trattate con uno stile minimalista e pudico. A mezza strada fra ritratto d’artista e cinéma-vérité si colloca Antonio Ligabue pittore (1965), splendida e inquietante serie di scene di vita “vissuta per la macchina da presa” del noto pittore-contadino naïf della bassa reggiana.
Un altro regista di documentari caratterizzati da uno stile laconico e pudico, al limite della fiction, è il critico Leonardo Autera, autore di una quindicina di cortometraggi fra cui Spettacolo eccezionale (1961), Cinema a tutti i costi (1962) e Qualcosa sopra la pelle (1963).

La tendenza realistica : De Seta e Olmi
Il predominio dello stile negli autori citati può essere considerato, con le dovute cautele, simmetrico all’invasione nel dopoguerra di un documentarismo estetizzante e folcloristico, fatto di albe e tramonti e di monumenti mirabili, erede della tendenza “preziosa” del periodo fascista. Rispetto a ciò che sta succedendo nel lungometraggio col neorealismo, un approccio “senza mediazioni” alla realtà è relativamente eccezionale nel campo del cortometraggio. Un esempio convincente di questa tendenza realistica è il film d’esordio di Luigi Comencini, Bambini in città (1946) ambientato a Milano. Dopo aver debuttato nel lungometraggio con Proibito rubare (1948), Comencini realizza altri due cortometraggi: Il museo dei sogni (1949), che è quasi un film promozionale sulla Cineteca Italiana di Milano e il salvataggio del vecchio cinema (un soggetto che svilupperà in un assai originale e poco noto lungometraggio, La valigia dei sogni, 1953); e L’ospedale del delitto (1950), sul manicomio criminale di Aversa, dove il realismo estremo, quasi crudele, delle immagini – a volte con suono in presa diretta – viene contraddetto da un commento imposto, incredibilmente conformista.
Su un soggetto analogo (un ospizio di vecchi a Milano) è il cortometraggio di esordio di Dino Risi, I bersaglieri della Signora (1946) cui segue, sempre ambientato a Milano, il “neorealistico Barboni (1946). Fra i numerosi documentari di Risi prima dell’esordio nel lungometraggio con Vacanze col gangster (1952) sono da ricordare Cortili (1947) e Buio in sala (1950), anch’essi ambientati a Milano; il secondo, una minifiction sulle reazioni di uno spettatore dei cinema di terza visione, è quasi un’anticipazione della commedia all’italiana, come lo è del resto l’episodio Paradiso per tre ore di L’amore in città.

A parte gli esempi tutto sommato isolati di Bambini in città e Barboni, a cui possiamo aggiungere per certi aspetti Gente del Po, l’inconciliabilità fra neorealismo e documentarismo sembra confermata dai progetti zavattiniani che partono dal cortometraggio inserendolo nel film a episodi (questa formula era stata anticipata da Riccardo Ghione e Marco Ferreri, promotori di “Documento Mensile”, tre serie mai distribuite di “cortissimi” con contributi di Visconti, Antonioni, Moravia e altri), L’amore in città (1952-53, di Risi, Lizzani, Antonioni, Fellini, Lattuada e Maselli-Zavattini, un progetto ideato da Ghione e Ferreri e fatto proprio da Zavattini) e Siamo donne (1952-53, di Guarini, Franciolini, Rossellini, Zampa e Visconti) partono da storie “prese dalla vita” o realmente accadute ai protagonisti per trasformarle in finzioni. Nonostante certe sue teorizzazioni sull’estetica del “pedinamento”, che potrebbero farlo apparire come un antesignano del cinéma-vérité, Zavattini nei film di cui è ispiratore non serve la realtà ma se ne serve per rendere più verosimile la finzione. Solo Rossellini si affida alla realtà e la conserva nella sua rozzezza e casualità, improvvisando senza sceneggiatura in Paisà (1946) o nell’episodio con Ingrid Bergman di Siamo donne. Pur all’interno della finzione, è nel suo cinema che emerge con più forza lo spirito del documentarismo.

Nel 1954, quando la battaglia e la pratica neorealistica sono già in fase declinante, debuttano due documentaristi che affrontano in maniera diretta la realtà: Vittorio De Seta e Ermanno Olmi. La scelta di De Seta è radicale: assenza di commento e di musica, suono diretto, riprese che nascono da una ricognizione spesso anche fisicamente faticosa sui luoghi della Sicilia, della Sardegna e della Calabria che vuole documentare. La bellezza quasi sacrale ed epica dei suoi dieci documentari (fra cui memorabili Lu tempu di li pisci spata, 1954, e, tutti del 1955, Contadini del mare, Isole di fuoco, Surfatara, Pescherecci) viene “dopo” un lavoro sul campo, corrisponde al processo di decantazione di una realtà colta inizialmente nella sua magmaticità, e dipende anche dalla coscienza che ciò che si sta filmando è un mondo in via di estinzione. Ciò appare evidente nella serie televisiva in quattro puntate La Sicilia rivisitata (1979-1981), che incorpora i sette documentari siciliani degli anni cinquanta contrapponendoli ai cambiamenti radicali avvenuti negli anni successivi.
Al contrario di De Seta, Olmi filma al nord una realtà industriale moderna (i suoi documentari sono prodotti dalla sezione cinema della Edisonvolta, da lui fondata). C’è in lui una sostanziale fiducia nel progresso tecnologico, evidente per esempio in Tre fili fino a Milano (1958) e Un metro è lungo cinque (1961). Contemporaneamente affiora però un’attenzione per le radici antiche, contadine, che stanno dietro gli operai delle dighe o delle centrali elettriche. Ciò che viene emarginato dal progresso non deve andare perduto, ci dicono Il pensionato (1958) o Grigio (1958), quest’ultimo su un cane randagio sottoposto a vivisezione, con testo di Pasolini. Una vena nostalgica verso un passato incontaminato dal progresso, latente nel realismo rosselliniano dei suoi molti lungometraggi sul mondo moderno del lavoro, diventa patente nei film più recenti, in particolare nel documentario di lungometraggio Lungo il fiume (1991). Qui il degrado del Po, diventato deposito di scarichi industriali, è contrapposto alla visione mistica di una natura vergine, con effetti fotografici estetizzanti, musica sacra e citazioni bibliche che fanno di questo documentario ambizioso ma irritante una paradossale apoteosi della tendenza “preziosa” e antirealistica.

I documentari di lungometraggio
Fin dal 1945, accanto alla produzione di cortometraggi emerge quella di lungometraggi a carattere documentario. Possiamo individuare quattro generi.

1) Il film di montaggio.

Comprende una ventina di titoli, a cominciare da Giorni di gloria (1945), coordinato da Mario Serandrei e Giuseppe De Santis, dove vengono montati materiali di repertorio sulla Resistenza, scene girate da Marcello Pagliero (la scoperta delle Fosse Ardeatine) e da Visconti ( il processo al Questore di Roma Pietro Caruso e il linciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta), nonché scene di lotta partigiana “ricostruite” da De Santis. Il metodo di mescolare repertorio e fiction viene utilizzato nei cortometraggi di analogo argomento La nostra guerra (1945) di Lattuada e L’Italia s’è desta (1947) di Paolella, nonché nel lungometraggio Guerra alla guerra (1946) di Romolo Marcellini. Un tentativo isolato resta Cavalcata di mezzo secolo (1950-52), progettato dal produttore Carlo Infascelli e coordinato da Emmer, un film invisibile da molti anni. Negli anni sessanta il film di montaggio assume una nuova coscienza politica, a cominciare da All’armi siam fascisti (1961) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini, ottima ricostruzione critica del fascismo, che giunge fino ai nostri giorni. In La rabbia (1962) gli anni recenti vengono rivisitati in due episodi “da sinistra” (Pasolini) e da destra” (Giovanni Guareschi). Gott mit Uns (1963) del critico Fernaldo Di Giammatteo è un attento riesame del nazismo. Ça ira, il fiume della rivolta (1964) di Tinto Brass ricostruisce con disinvoltura le varie rivoluzioni del secolo. Nel quinto episodio della serie televisiva L’età del ferro (1963-65) Rossellini cataloga le più curiose invenzioni che hanno caratterizzato il progresso industriale. Sul fascismo torna Fascista (1974) di Nino Naldini e sulla Resistenza il notevole Lotta partigiana (1975) di Paolo Gobetti e Giuseppe Risso. Bianco e nero (1975) di Paolo Pietrangeli analizza il neofascismo con interviste miste a repertorio e Forza Italia!(1977) di Roberto Faenza irride un po’ goliardicamente il potere democristiano. Terminato nel 1973 ma edito solo nel 1978 è l’ottimo Homo sapiens di Fiorella Mariani. Rari e splendidi esempi di film di montaggio creativi sono, fra gli altri, Karagoez-Catalogo 9,5 (1981) e Dal Polo all’Equatore (1986) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Fra gli esempi più recenti I 600 giorni di Salò (1991) e Succede un quarantotto (1994) di Nicola Caracciolo e Valerio Marino, che montano e commentano convenzionalmente materiali poco noti o inediti.

2) Il film di viaggio, etnologico ed esotico.

Il primo film del genere è una coproduzione Luce, Una lettera dall’Africa (1951) di Leonardo Bonzi, che però ha scarso successo, al contrario di Magia verde (1952) di Gian Gaspare Napolitano, sull’America centrale, che lancia un genere assai popolare negli anni cinquanta. Seguono fra i titoli di maggior rilievo: Sesto continente (1953) di Folco Quilici, sugli oceani, un sottogenere di cui diventa uno specialista, sia in campo documentario (Oceano 1971) che nella fiction; Eva nera (1954) di Giuliano Tomei, una sorta di filminchiesta sulla donna africana a metà strada fra documentario e fiction che ha scarso successo di pubblico; India favolosa (1954) di Giulio Macchi; Continente perduto (1955) sulla Cina e l’Indonesia e L’impero del sole (1955) sul Perù, a cui collaborano a vario titolo Mario Craveri, Enrico Gras, Giorgio Moser e Leonardo Bonzi; Paradiso terrestre (1956) di Emmer, sulle popolazioni primitive, India Matri Bhumi (1957-59) di Rossellini, film in quattro episodi tra fiction e documentario, realizzato parallelamente alla serie televisiva in 10 episodi L’India vista da Rossellini/J’ai fait un beau voyage, che si distacca dal genere ed è piuttosto una riflessione saggistico-filosofica sulla civiltà indiana; La muraglia cinese (1958) di Carlo Lizzani; Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti, che con questo e altri film introduce nel genere un sadismo scandalistico e una manipolazione della realtà di marca reazionaria che fanno sensazione.

3) Il documentario erotico.

Nel clima degli anni sessanta esplode il fenomeno di film che pur partendo da una premessa documentaristica finiscono per servirsene come pretesto per mostrare un’antologia di nudi o di scene piccanti. In fondo il meccanismo non è dissimile da quello del film hard core, che sacrifica ogni logica del racconto all’accumulo di sequenze porno. Inaugura involontariamente il genere Europa di notte (1959) di Blasetti, film di enorme successo sui nightclub più famosi del vecchio continente, cui fa seguire, già misto a elementi di fiction, Io amo, tu ami… (1961). Jacopetti, che ha a suo modo ravvivato il tradizionale commento dei cinegiornali con “Europeo Ciak” e poi con “Ieri, oggi e domani” a metà degli anni cinquanta, è coautore di quello di Europa di notte. Il commento resta il perno del documentario italiano: sia esso letterariamente o poeticamente elaborato, come quelli di Fortini (All’armi siam fascisti) e Pasolini (La rabbia) o sensazionalistico, come quelli di Jacopetti, che col suo La donna nel mondo (1963) annulla ogni possibile distinzione tra film esotico e film erotico.

4) Il film-inchiesta.

Sono pochi ma significativi i titoli che si possono far rientrare sotto questa etichetta: I nuovi angeli (1961) di Ugo Gregoretti; Le italiane e l’amore (1961) supervisionato da Zavattini, con episodi di N. Risi, L. Mazzetti, P. Nelli, F. Maselli, G. Questi, G. F. Mingozzi, M. Ferreri, F. Vancini, C. Musso, G. Macchi, G. V. Baldi, e I misteri di Roma (1962-63), sempre supervisionato da Zavattini, reportage a più mani sugli aspetti meno noti della città; I ragazzi che si amano (1962) di Alberto Caldana; In Italia si chiama amore (1963) di Virgilio Sabel; il già ricordato I piaceri proibiti di Andreassi; Comizi d’amore (1964) di Pasolini e qualche altro.
In questi film si incrociano le teorie neorealistiche di Zavattini, l’influenza della televisione che da qualche anno si è aperta al documentario, l’eco del cinéma-vérité e del suo uso di attrezzature leggere per le riprese, nonché la voga del documentario erotico affrontato in questi casi con propositi non commerciali. Le italiane e l’amore non è che un epigono di L’amore in città: l’inchiesta di partenza è trasposta quasi sempre in episodi di fiction; i migliori sono quelli di Maselli, Questi, Musso, Baldi, Mingozzi e Macchi, e questi ultimi due sono gli unici che mantengano una forma documentaristica. I misteri di Roma (cui si possono affiancare il Cinegiornale della pace, 1963, e i Cinegiornali liberi, 1968-70, sempre coordinati da Zavattini) è invece esente da fiction e utilizza la macchina a mano e interviste in diretta; ma è anche la controprova dell’incapacità di Zavattini e dei suoi collaboratori (fra cui si ritrovano molti dei documentaristi più attivi negli anni sessanta) di realizzare nella pratica le teorie del pedinamento e della quotidianità, e rivela inoltre tutta l’impreparazione tecnica tipica del documentarismo italiano proprio nel momento in cui cerca di rifarsi all’inchiesta televisiva e al cinéma-vérité.

Gregoretti e Sabel sono fra gli iniziatori del documentarismo televisivo, assieme a Mario Soldati, cui si debbono le inchieste Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini (12 puntate, 1957-58) e Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno (7 puntate, 1959-60), e a Ugo Zatterin, autore di La donna che lavora (8 puntate, 1959) e Viaggio nell’Italia che cambia (1963). Gregoretti lavora in televisione dal 1956 dove si distingue con l’inchiesta Caccia al quadro (1959), con Sicilia del “Gattopardo” (1969, Prix Italia) e con la rubrica “Controfagotto”(1961); I nuovi angeli (1961-62) è un viaggio dalla Sicilia a Milano alla scoperta delle nuove realtà giovanili, suddiviso in episodi che mantengono la base documentaria pur elaborandola con moduli da fiction. Sabel aveva esordito nel cortometraggio col notevole e originale Una lezione di geometria (1948, in collaborazione col poeta, e matematico, Leonardo Sinisgalli), dove vengono annullati i confini fra scienza e arte, come nei successivi Un millesimo di millimetro (1950, sempre con Sinisgalli), Le ricerche del metano e del petrolio (1951, Nastro d’argento) e Una lezione di acustica (1951); alla fine degli anni cinquanta, Sabel comincia a lavorare in televisione dove si fa notare con l’inchiesta Viaggio nel sud (10 puntate, 1958) e con Storia della bomba atomica (6 puntate, 1962);

In Italia si chiama amore si distacca dal genere erotico per avvicinarsi piuttosto all’inchiesta televisiva, ibridando nella struttura episodica documentario e fiction con risultati più curiosi che convincenti. Alberto Caldana esordisce nel documentario realizzando fra l’altro Ceneri della memoria (1960), un bel mediometraggio, suddiviso poi dal produttore in tre cortometraggi, sulla deportazione degli ebrei di Roma e sul neofascismo; I ragazzi che si amano è un tentativo unico di cinéma-vérité italiano: due coppie di giovani raccontano le loro storie d’amore di fronte al regista-intervistatore reiscenandole come in uno psicodramma; ma la mediazione del cinema non riesce a far evolvere la situazione, e alla fine si ha la sensazione frustrante di una passiva registrazione di eventi. Al contrario, Pasolini in Comizi d’amore (1963-64) si interroga di continuo sul senso della propria funzione di intervistatore; non si accontenta dei risultati bruti della sua inchiesta sul significato dell’amore fra classi sociali diverse e in diverse regioni d’Italia, ma la struttura a posteriori in capitoli e la fa confluire in un epilogo di fiction dove la “verità” trova una sintesi poetica e dove l’autore esplicita quasi teoricamente il conflitto dialettico fra la realtà e la sua inevitabile interpretazione stilistica. Pasolini continua a riflettere in forma documentaria e saggistica sul proprio personalissimo rapporto con la realtà in altre opere che alterna ai film più noti: Sopralluoghi in Palestina (per Il Vangelo secondo Matteo, 1963), Appunti per un film sull’India (1968), Appunti per un’Orestiade africana (1968-1973), Le mura di Sana’a (1970); sicché si può affermare che il cinema italiano trova in lui, a sorpresa, uno dei suoi maggiori documentaristi.

Gli anni sessanta
La maggiore libertà espressiva del periodo produce i suoi effetti anche nel campo del cortometraggio. Negli anni precedenti gli autori di sinistra debbono superare enormi difficoltà produttive e censorie per riuscire a realizzare i loro progetti di documentari politici o di impegno sociale. Ricordo Quando il Po è dolce (1952) di Renzo Renzi, sorta di film-inchiesta ante litteram, Cristo non si è fermato ad Eboli(1952) di Michele Gandin, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1953) di Fausto Fornari, San Miniato, Luglio ‘44 (1954), film di esordio dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini, Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959) di Nelo Risi, Non basta soltanto l’alfabeto (1959) di Gandin, A volte è l’intervento produttivo del PCI a dare voce a temi politici, come nel collettivo Togliatti è tornato (1948), coordinato da Basilio Franchina e Carlo Lizzani, sul ritorno del dirigente comunista nella vita politica dopo l’attentato del 14 luglio, e in Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1950) di Carlo Lizzani, assai curiosi entrambi perché mantengono la struttura formale del cinegiornalismo più tradizionale, voce dello speaker compresa, variando solo i contenuti.

Nel clima più aperto degli anni ‘60, nonostante il permanere di pressioni produttive e censorie, riescono comunque a emergere documentaristi interessati a trattare temi politici, a mostrare un mondo contadino che continua a vivere ai margini del boom economico, a denunciare situazioni di conflittualità sociale. I nomi più rappresentativi sono quelli di Mario Carbone, Toni De Gregorio, Lino Del Fra, Carlo Di Carlo, Giuseppe Ferrara, Michele Gandin, Ansano Giannarelli, Ennio Lorenzini, Cecilia Mangini, Lino Micciché, Massimo Mida, Piero Nelli, Giuseppe Taffarel. Fra le case di produzione e i produttori ricordiamo la sempre attiva Documento, la SEDI (che realizza anche un cinegiornale) di Enzo Nasso, la Nexus di Giorgio Patara e la Corona di Ezio Gagliardo. Formalmente la gran parte di questi documentari non si discosta dalla tradizione: immagini mute o con qualche suono d’ambiente, commento e musica illustrativi e ridondanti, riprese descrittive peggiorate verso la fine del decennio dall’imperversare dello zoom, scarsa presenza di uno stile personale; ideologicamente poi si riscontra, specie nei commenti, un punto di vista veteromarxista. E tuttavia bisogna riconoscere che nel loro insieme questi cortometraggi costituiscono una documentazione “a futura memoria” di una realtà che il lungometraggio di finzione è meno interessato a registrare, come se l’emarginazione produttiva a cui il genere è costretto spingesse i registi a trattare temi anch’essi marginalizzati.

Selezionando con pazienza nella grande quantità è possibile isolare qualche titolo che meno di altri risente del conformismo formale imperante (che dipende anche, va ricordato, dalle umilianti condizioni di produzione); qualche esempio: Firenze, novembre ‘66 (1966) di Carbone, La bella contrada (1965) di De Gregorio, Fata Morgana (1961) di Del Fra, Inchiesta a Perdasdefogu (1961) di Ferrara, Processioni in Sicilia (1964) di Gandin, Portuali (1961) di Lorenzini, Quartiere senza volto (1962) di Mida, Radiografia della miseria (1967) di Nelli, Fazzoletti di terra (1973) di Taffarel. In quest’ambito la personalità più interessante è quella di Luigi Di Gianni, che si specializza in film a carattere etnografico sull’Italia meridionale, documentando in particolare i riti magico- religiosi che ancora sopravvivono nelle campagne. Senza pregiudizi e con la passione di un testimone coinvolto, Di Gianni si preoccupa di registrare una realtà in via di estinzione e per farlo si serve spesso del suono diretto o in presa diretta; i suoi cortometraggi sono sempre meno delle opere concluse in se stesse e sempre più frammenti di un progetto più ampio di catalogazione etnografica. Fra quelli più riusciti ricordo: Magia lucana (1958), Pericolo a Valsinni (1959), Frana in Lucania (1959), Grazia e numeri (1962), Il male di San Donato (1965), Viaggio in Lucania (1965), Il culto delle pietre (1967), La possessione (1971), L’attaccatura (1971).

Le nuove tecniche: Baldi, Mingozzi, Amico
Il documentarismo “di sinistra” tradizionale mette i contenuti al primo posto e riflette poco sui problemi formali e sulle tecniche; altri autori, che pure non sottovalutano i temi prescelti, partono invece da una diversa impostazione. E’ in sostanza il rilievo dato alla presa diretta che consente a Gian Vittorio Baldi, Gian Franco Mingozzi e Gianni Amico di distinguersi dai loro colleghi con opere anche tecnicamente più moderne; inoltre, i loro documentari partono da una lunga familiarità con i temi trattati, che consente loro fra l’altro di girare rapidamente entro i limiti produttivi (il budget medio di un cortometraggio nei primi anni sessanta è di 1.250.000 lire); infine, i contatti col documentarismo internazionale, nonché, nel caso di Baldi e Amico, la familiarità con Rossellini, consente loro di sprovincializzare il documentario italiano. Oltre a un film di montaggio per la Tv (Cinquant’anni 1898-1948, 10 puntate, 1958-59), Baldi realizza tre cortometraggi a carattere etnografico nell’alto Lazio (Il pianto delle zitelle, Vigilia di mezza estate, La notte di San Giovanni, 1958) per poi passare a documentari più costruiti, girati a Roma (Via dei Cessati Spiriti, 1959, La casa delle vedove, 1960, Leone di San Marco a Venezia e Nastro d’argento, Luciano, via dei Cappellari, 1960, premio speciale a Tours) e a Torino (Ritratto di Pina e Il bar di Gigi, 1960), tutti caratterizzati da padronanza formale e da un rapporto documentato con la realtà. Nel 1962 passa al lungometraggio sviluppando uno dei suoi cortometraggi (Luciano, 1963, uscito fugacemente nel 1967); in questo film ma soprattutto nei successivi Fuoco! (1968), una tragedia familiare in un paesino del Lazio, Anni duri (1977), film televisivo su un operaio della Fiat negli anni cinquanta, e ZEN-Zona Espansione Nord (1988), sull’assistenza sociale della Chiesa in un quartiere degradato di Palermo, Baldi elabora il materiale di fiction con tecniche documentaristiche, ottenendo eccellenti risultati, che lo apparentano per certi versi, compresa l’emarginazione, a De Seta.

Non va poi dimenticata la sua attività di produttore a basso costo (molti cortometraggi e alcuni lungometraggi di Mingozzi, N.Risi, Pasolini e Bresson, fra gli altri) e di fondatore con Grierson e Ivens dell’AID (Association Internationale des Documentaristes, 1964). Mingozzi alterna nella sua attività documentaristica due tendenze contrastanti: da una parte un gusto estetico che lo apparenta al documentarismo tradizionale, compreso il rilievo dato al commento (Via dei Piopponi, 1962, Il putto, 1963, Li mali misteri, 1963; quest’ultimo, il migliore, è una ballata con testo del poeta siciliano Ignazio Buttitta sull’”arte di arrangiarsi” a Palermo); dall’altra un realismo etnografico analogo a quello di Di Gianni e Baldi, dove Mingozzi impiega Arriflex e suono diretto senza però rinunciare a commenti “firmati” (La taranta, 1962, con testi di Salvatore Quasimodo, Con il cuore fermo, Sicilia, 1965, con testo di Sciascia, Leone di San Marco a Venezia). Grazie a Baldi, Mingozzi fa nel 1964 uno stage presso l’ONF a Montréal assieme al suo operatore Ugo Piccone (che lavorerà anche con Straub, Baldi e Bertolucci); ciò consente a entrambi di affinare le loro tecniche di ripresa leggera, nonché di realizzare due bei documentari, Note su una minoranza, sul versante cinéma-vérité, e Il sole che muore, su quello “estetico”. Successivamente Mingozzi alterna lungometraggi di fiction realizzati per il cinema e la televisione, documentari sul cinema (Michelangelo Antonioni, storia di un autore, 1966, L’ultima diva: Francesca Bertini, 1982, 3 puntate, Bellissimo, immagini dal cinema italiano, 1985, Storie di cinema e di emigranti 1986, 7 puntate) e documentari etnografici che si rifanno alle sue prime esperienze (Sulla terra del rimorso, 1982, sul tarantismo, e La terra dell’uomo, 1988, 3 puntate mai trasmesse dalla Rai, che riprende fra l’altro il materiale girato in Sicilia nel 1963 per il lungometraggio incompiuto La violenza¸ sull’esperienza di Danilo Dolci, apostolo della “non violenza”). Amico realizza alcuni bei documentari sulla musica jazz e brasiliana, che conosce molto bene (Noi insistiamo!, 1964, Appunti per un film sul jazz, 1965, in presa diretta, Ahi! Vem o samba, 1968, 3 puntate), sul cinema neorealista (Il cinema della realtà, 1965 prodotto da Baldi), inchieste televisive ( in particolare va ricordato Lo specchio rovesciato, 1980, 3 puntate, in co-regia con Marco Melani, sui portuali di Genova), un originalissimo “film familiare”, Diario di Manarola (1987), in cui fa convergere in video alcuni super8 privati e gli appunti per un progetto di film sull’esperienza del pittore Telemaco Signorini alle Cinque Terre, in Liguria e Gramsci l’ho visto così (1988), notevole esempio di documentario biografico-saggistico. Il suo primo film di fiction, Tropici (1968), girato in Brasile, deve molto alla sua esperienza di documentarista e resta un modello di questo tipo di incroci.

Ancora la televisione
Per quanto esemplari, non si può tuttavia dire che le innovazioni di Baldi, Mingozzi e Amico imprimano una svolta al documentarismo italiano degli anni sessanta. Protagonista di un cambiamento è invece, con tutti i suoi limiti istituzionali, la televisione. Una tendenza è quella dell’inchiesta, di cui abbiamo già parlato e di cui vanno ricordati altri esempi di ricerca originale: L’Italia non è un paese povero (1959, 3 puntate) di Joris Ivens, commissionato da Enrico Mattei per pubblicizzare le attività dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) da lui presieduto, a cui collaborano i fratelli Taviani e Valentino Orsini, e che la Rai trasmette con 25’ di tagli; La lunga strada del ritorno (1962, 3 puntate) di Blasetti, testimonianze di reduci della Seconda guerra mondiale; Noi e l’automobile (1962, 5 puntate) di Luciano Emmer; La casa in Italia (1964, 4 puntate, tre delle quali censurate dalla Rai) di Liliana Cavani; La via del petrolio (1966, 3 puntate) di Bernardo Bertolucci, un viaggio “poetico” dall’Iran, dove il petrolio viene estratto, a Genova, alla Valle d’Aosta, fino in Baviera, dove viene raffinato; I bambini e noi (1970, 6 puntate) di Comencini, rieditato con l’aggiunta di nuove interviste agli ex bambini dieci anni dopo, nonché, sempre di Comencini, L’amore in Italia (1978, 5 puntate) Chong-kuo Cina (1972, 3 puntate, edito anche in versione corta) di Antonioni, splendido reportage che risulta sgradito alle autorità cinesi dell’epoca; La notte della Repubblica (1989) e altre inchieste di Sergio Zavoli.

A parte vanno considerati due casi esemplari ma totalmente opposti. Nanni Loy, più noto come regista di film di fiction, realizza nel 1964 una serie televisiva in 8 puntate, Specchio segreto, che ottiene un grande successo e suscita molte discussioni per i metodi con cui viene condotta l’inchiesta, riaccese dalla riedizione del 1978. Loy va contro le regole e la morale canonica del cinéma-vérité e del direct cinema: la macchina da presa è nascosta, a volte addirittura dietro un falso specchio, e le situazioni “spontanee” vengono provocate da falsi intervistatori che recitano ruoli paradossali per coinvolgere passanti ignari del trucco; ciò non toglie che questa trasmissione, a metà fra documentario e commedia all’italiana, abbia il potere di rivelare, casomai subdolamente, alcune verità del carattere degli italiani. Analogo è il metodo seguito da Loy in altre due trasmissioni, Viaggio in seconda classe (1977, 10 puntate), che si svolge tutta in treno lungo l’Italia, e che gli dà lo spunto per un bel film con Nino Manfredi, Café express (1978), e Candid Camera Show (1988). De Seta realizza nel 1972 Diario di un maestro (3 puntate, ma esiste anche una versione di 135’ per il cinema): sulla traccia del libro “Un anno a Pietralata” del maestro Albino Bernardini, si serve di un attore, Bruno Cirino, per provocare in una classe elementare della borgata romana situazioni rivelatrici del degrado ambientale e costruire attraverso un lavoro di gruppo un’ipotesi di riscatto. Il film, girato in presa diretta e in 16mm, è uno dei capolavori del cinema italiano, e l’esempio più autorevole delle possibilità offerte da una commistione di fiction e documentarismo. Puramente documentario è invece Quando la scuola cambia (1979, 3 puntate). Le prove più recenti di De Seta nel campo del documentario sono Hong Kong. Città di profughi (1979-80, 3 puntate), Un carnevale per Venezia (1983) e, dopo un lungo silenzio, In Calabria (1993).

Un altro settore della televisione che meriterebbe una ricognizione dettagliata è quello delle rubriche giornalistiche e culturali, che a volte nascondono brevi interventi documentari di notevole livello. Mi limito a ricordare alcune testate: “RT-Rotocalco televisivo” (1962), “TV (7)” (1963-1971), che resta la più famosa, “Almanacco” (nata nel 1963), “L’Approdo” (1966-1973), “Zoom” (nata nel 1966), “AZ” (nata nel 1967), “Sapere” (1967-1971), “Stasera” (nata nel 1972), “Settimo giorno” (1974), “Odeon” (1976-1978), che rinnova il genere, “Mixer” (nata nel 1980 e tuttora attiva), nonché la serie “Io e…” (1972-1974), in cui un personaggio della cultura o dell’arte viene messo a confronto con un’opera d’arte e alla quale collaborano fra gli altri Emmer e Paolo Brunatto.
Andrebbero poi esaminati nel mare magnum della televisione gli “special”, trasmissioni di 60’-90’ a tema unico. Un settore particolare che ho potuto studiare è quello degli “special” sul cinema, in cui si trovano ottimi documentari come Appunti biografici su Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Autoritratto di Giulio Macchi, entrambi del 1964, Un’ora (e 1/2) con il regista di “8 1/2” (1964) di Sergio Zavoli, Mastroianni, un Casanova dei nostri tempi (1965) di Antonello Branca, Zavattini.
Parliamo tanto di me (1968) di Fabio Carpi, Bertolucci secondo il cinema (1976) di Gianni Amelio e ABCinema (1975) di Giuseppe Bertolucci, entrambi sulla lavorazione di Novecento di Bernardo Bertolucci, A futura memoria (1985) di Ivo Barnabò Micheli, su Pasolini (questi ultimi due non prodotti dalla Rai).

Una trasmissione particolare, forse unica a livello internazionale, è la “diretta” da Vermicino. Fra il 12 e il 13 giugno 1981 Rai 1 e Rai 2 seguono a reti unificate per 18 ore consecutive il tentativo di recupero di un bambino caduto in un pozzo incustodito nei pressi di Roma; malgrado tutti gli sforzi, compreso l’intervento di volontari, l’operazione fallisce dopo aver tenuto col fiato sospeso milioni di italiani. E’, involontariamente, l’esempio-limite e il superamento del cinéma-vérité: realtà assoluta che contiene una costruzione “narrativa” a suspense, ma senza catarsi
finale.
In anni recenti la televisione si orienta sulla cosiddetta Tv-verità, che scandaglia le più diverse realtà in diretta o in differita rinunciando alla mediazione del cinema e riuscendo a coinvolgere anche spettacolarmente lo spettatore con mezzi molto semplici. Le trasmissioni più famose sono “Telefono giallo”, “Io confesso”, “Un giorno in pretura” e “Chi l’ha visto?”.

Documentari militanti e documentari sperimentali

Fuori dalla produzione destinata immediatamente al cinema e alla televisione, se ne manifesta negli anni sessanta una di intervento politico, che in parte prosegue certe esperienze di cinema dei partiti di sinistra ma in parte le supera e, col ‘68, vi si oppone.
Un esperimento anticipatore è quello di Scioperi a Torino (1962), di Carla e Paolo Gobetti, un film di mezz’ora girato in 16mm con suono diretto, con commento di Franco Fortini; nonostante certi difetti tecnici, il film è un resoconto non convenzionale delle lotte operaie alla Lancia e alla Fiat. Nel 1964 viene costituita a Roma su iniziativa comunista e socialista l’Unitelefilm (il cui patrimonio archivistico diventa il nucleo iniziale dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, costituitosi nel 1979) per produrre, distribuire e conservare il cinnema documentaristico di tipo prevalentemente politico. Fra le produzioni ricordo: L’Italia con Togliatti (1964) coordinato da Glauco Pellegrini, sui funerali del dirigente comunista; Della conoscenza (1968) di Alessandra Bocchetti, un documentario del movimento studentesco con una elaborazione formale di ascendenza godardiana; Apollon, una fabbrica occupata (1969) e Contratto (1970) di Ugo Gregoretti, il primo un infelice tentativo di mettere in scena, con la collaborazione dei protagonisti, un’occupazione; il secondo, meno ambiguo e più documentaristico, sugli scioperi dei metalmeccanici nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969; La casa è un diritto non un privilegio (1970) di Anna Lajolo, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi e Paola Scarnati; Giuseppe Pinelli, più documentario, e Ipotesi sulla morte di Pinelli, più di fiction, e più riuscito, entrambi del 1970, promossi dal Comitato cineasti italiani contro la repressione, il primo coordinato da Nelo Risi, il secondo da Elio Petri, su un famoso episodio di “suicidio” in questura di un operaio sospettato di aver partecipato alla strage di Milano del 12 dicembre 1969, che innesca la “strategia della tensione”; La salute è malata (1971) di Bernardo Bertolucci, un documentario corretto ma inferiore alla fama del regista; Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-nam (1972) di Ettore Scola, bella docufinzione su un operaio che emigra da un paese della Campania (lo stesso dove è nato Scola) per andare a lavorare alla Fiat (Scola ha al suo attivo altri film di carattere documentaristico-politico); Bianco e nero (1975) di Paolo Pietrangeli; Fortezze vuote (1975) di Gianni Serra, sulla ristrutturazione degli ospedali psichiatrici in Umbria; Panni sporchi (1980) di Giuseppe Bertolucci, ottima variazione documentaria sugli emarginati che popolano la stazione di Milano dove è ambientato anche il contemporaneo lungometraggio di fiction Oggetti smarriti.

A fianco di queste iniziative si registrano inoltre quattro “Cinegiornali del movimento studentesco” (1968), con alcuni materiali preziosi banalizzati in sede di montaggio e missaggio, e 12 dicembre (1970-72), promosso da “Lotta continua”, con materiali girati da Pasolini, Maurizio Ponzi e Giovanni Bonfanti, che firma la regia, un viaggio dalla Sicilia al nord nell’Italia della strage di Milano.
Altri documentari si manifestano sull’onda del ‘68 sia nell’ambito dello sperimentalismo sia in quello della sinistra extraparlamentare. Splendidi esempi di documentari girati con spirito amatoriale sono quelli realizzati da Paolo Brunatto durante il suo periodo underground, che si inserisce salutarmente nella sua più tradizionale attività di documentarista televisivo: Vieni, dolce morte… (1967-68), su un viaggio iniziatico dalla Turchia al Nepal, Oserò turbare l’universo? (1969-70, 8mm), sulla sua vita in una casa di campagna in Toscana, Tashi Jong (1973, super8), su un villaggio tibetano. Guido Lombardi, anche lui proveniente dall’underground, realizza con la moglie Anna Lajolo D – Non diversi giorni… e & – Là il cielo e la terra si univano… (1972), di ardita e rigorosa concezione sperimentale, e, più in linea con un cinema d’inchiesta militante, E nua ca simu a forza du mundu (1971), assieme a un altro transfuga dell’underground, Alfredo Leonardi, sugli incidenti di lavoro nei cantieri edili, prodotto dalla Rai ma mai trasmesso; successivamente il terzetto realizza vari video documentari, fra cui in particolare L’isola dell’isola (1977), indagine su una comunità sarda; di nuovo da soli, Lombardi e Lajolo realizzano vari documentari in 16mm e in video per la Rai. Alberto Grifi, altro cineasta sperimentale, e Massimo Sarchielli registrano nel 1972 a Roma, in video 1/4 di pollice, undici ore di materiale su una freak out che viene ospitata in casa del secondo nel tentativo di “salvarla”. Nel 1975 montano 4 ore e 30’ di questo materiale e lo trasferiscono in 16mm con un’apparecchiatura inventata allo scopo; il film, Anna, presentato a Berlino e a Venezia, è un capolavoro: non solo rappresenta un superamento del cinéma-vérité ma fa un uso profetico del video, un mezzo molto più leggero ed economico del 16mm che consente di riprendere eventi qualsiasi senza fretta e che, nella sua domesticità, predispone, come in questo caso, a un coinvolgimento personale, circolare, fisico con il soggetto ripreso.

Di ispirazione più immediatamente politica sono alcuni documentari che meglio riescono a superare la contraddizione tra forma e contenuto tipica della opere “di sinistra”, per esempio Seize the Time (1968-70) di Antonello Branca, girato in USA a contatto con le Black Panthers. Marco Bellocchio, che aveva già dato nel 1969 due contributi cinematografici militando nell’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, realizza nel 1974 assieme a Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli Nessuno o tutti (la versione corta, gonfiata in 35mm, si intitola Matti da slegare), un film sull’esperienza progressista degli ospedali psichiatrici di Parma e dintorni di forte impatto emotivo, nonostante un uso poco pensato della tecnologia leggera; il quartetto prosegue l’esperienza documentaristica col meno riuscito La macchina cinema (1978, 4 puntate), sulle emarginazioni che tale macchina produce. Da solo Bellocchio gira un bel film diaristico, Vacanze in Val Trebbia (1980) e un documentario-inchiesta sul terrorismo, Sogni infranti: ragionamenti e deliri (1995). Silvano Agosti partecipa al Movimento studentesco girando alcuni notevoli materiali per i loro cinegiornali (successivamente rimontati in Vent’anni d’oblio, 1988), realizza altri documentari militanti e, sulla scia delle esperienze con i malati mentali, torna a Parma nel 1983 dove gira in video D’amore si vive, cui segue, sempre in video, Bell’amore (1986). Si tratta di una serie di straordinari ritratti, filmati con grande semplicità e partecipazione affettiva, di uomini, donne, bambini che raccontano le loro anomale esperienze amorose. Frammenti di vite clandestine (1988-92) è una serie di interventi in video di 5’ sul vissuto di persone emarginate o addirittura recluse per la loro “diversità”, realizzati con amore e discrezione. Questa esperienza documentaristica di Agosti, questo suo “faccia a faccia” con una realtà umana emotivamente intensa, si riflette nel suo migliore lungometraggio di fiction, Quartiere (1987). Agosti ha inoltre prodotto e proiettato regolarmente nella sala che gestisce a Roma Pianeta azzurro (1978) di Franco Piavoli, un documentario sperimentale di sapore ecologico (ai precedenti documentari amatoriali di Piavoli è dedicata una puntata di La macchina cinema). Di Piavoli è esemplare per poesia e sensibilità formale Voci nel tempo (1996).

La dispersione del documentario
Ormai il documentarismo italiano non ha più regole da seguire. Il cortometraggio destinato ai premi di qualità continua a sopravvivere nella clandestinità; quello d’autore realizzato fino agli anni sessanta (Emmer, Antonioni, Zurlini, De Seta, Andreassi, Baldi) non lascia eredi; certe recenti produzioni indipendenti realizzate in pellicola o in video con l’ambizione di compiacere il pubblico o come biglietti da visita per esordire nel lungometraggio preferiscono la fiction, con risultati spesso desolanti. La televisione non sembra più interessata a produrre documentari creativi ed è restia ad accogliere produzioni esterne che non siano di routine.

Come nel cinema di fiction, comincia a manifestarsi negli anni ‘80 una produzione documentaristica spontanea, disordinata e dispersa, priva apparentemente di retroterra: come se si ricominciasse da zero. Il video contribuisce a questo fiorire sotterraneo di un nuovo documentarismo. Alcuni festival (Salsomaggiore, Bellaria, Torino, Roma, contraltari del Festival dei Popoli di Firenze, sede classica del documentarismo internazionale) offrono occasioni per mostrare a un pubblico più ampio opere altrimenti destinate a circuiti marginali. La produzione si moltiplica quantitativamente, e diventa difficile orientarsi. Mi limiterò, alla fine di questo lungo itinerario attraverso il documentario italiano, a fornire qualche indicazione su ciò che ho avuto occasione di vedere. Processo per stupro (1979) di un collettivo femminista, eccezionalmente prodotto e trasmesso dalla Rai, riesce a comunicare la forza di ciò che mostra nonostante la tecnica assai approssimativa con cui è girato; lo stesso si può dire della successiva prova del collettivo, AAA Offresi (1981), su una prostituta, che invece la Rai rifiuta. Sassalbo provincia di Sidney (1981) di Luigi Faccini è un’efficace inchiesta su un paesino dell’entroterra toscano i cui abitanti sono per la maggior parte ex emigrati in Australia; la vocazione documentaristica di Faccini è confermata da Villa Glori (1988), un video prodotto dalla Rai regionale su una casa di accoglienza per malati di Aids a Roma. La vocazione (1983) di Gabriella Rosaleva è un bellissimo ritratto di religiose realizzato anch’esso in video per la Rai regionale.

La produzione regionale della terza rete Rai, ormai interrotta, in particolare quella piemontese, offre occasioni di lavoro a molti videomakers. Fra questi si distingue Daniele Segre, che dal 1976 produce e dirige in video, ma talvolta anche in 16mm, documentari molto efficaci su realtà emarginate, come Ritratto di un piccolo spacciatore (1982), Vite di ballatoio (1986), che penetra nella vita privata di un gruppo di travestiti, Tempo di riposo (1981), confessione di un attore fallito che dopo questa prova, a suo modo anche un provino, torna a recitare per Segre in Manila Paloma Blanca (1992), altro esempio di film di fiction fortemente e felicemente contaminato dal documentario, e infine i più recenti Dinamite, Nuraxi Figus, Italia (1994), sui minatori, Come prima, più di prima t’amerò (1995) sui malati di Aids, e Paréven furmìghi (1997), che rievoca la ricostruzione di una sala cinematografica in un paese dell’Emilia nel secondo dopoguerra. Giuseppe Bertolucci, che alterna regolarmente film di fiction e documentari, realizza fra gli altri Tuttobenigni (1983-86), reportage su una tournée del comico aretino che egli stesso ha lanciato in teatro, in televisione e poi in cinema con Berlinguer ti voglio bene (1977). Bruno Bigoni è autore di alcuni interessanti video, fra cui …nel lago (1986), sul Teatro dell’Elfo a Milano, e Nome di battaglia: Bruno (1987), intervista mista a elementi ricostruiti con la madre di un terrorista rosso morto in un tentativo di fuga. Un altro regista milanese che si cimenta col documentario è Silvio Soldini, di cui ricordo il video Voci celate (1986), su un day hospital per malati di mente, e il cortometraggio Femmine, folle e polvere d’archivio (1992), originale film di montaggio prodotto dal Luce. Di Annalisa Scafi e Roberta Mazzoni è Il mio triste continente (1985) sconvolgente testimonianza in video di una ragazza cilena sopravvissuta alle torture. Splendido esempio di documentarismo sperimentale è il video N°0576 – Appunti per un documentario su Pozzuoli (1987) di Giuseppe Gaudino, primo abbozzo del suo notevole lungometraggio di esordio Giro di lune tra terra e mare (1997). Anche Roberta Torre ha girato, fra altri video, una anticipazione del suo lungometraggio di esordio, Tano da morire (1997), con Appunti per un film su Tano (1995). Altri autori meridionali di talento sono il videogruppo catanese Cane CapoVolto che opera nel campo del found footage cinema e del fake documentary (la serie in progress Plagium), Antonietta De Lillo (l’ottima docufiction Racconti di Vittoria, 1995) e Mario Martone Antonio Mastronunzio, pittore sannita, 1994, fra gli altri suoi documentari). Su una linea sperimentale si sta muovendo anche Pasquale Misuraca con delle originali e dense visualizzazioni di poesie e prose mediante materiali di repertorio nei brevi video Progetto poesia (1993) e Autoritratti vagabondi (1993: Kafka, Gramsci, Hitchcock, Pasolini); ottimo è anche il suo videosaggio Le ceneri di Pasolini (1994). Da seguire è l’attività di Fabio Segatori, autore in particolare di Il cuore e le gambe (Herzog) (1988), un insolito ritratto del regista tedesco.

Un efficace film di montaggio misto a interviste è Piccola America. Gente del nord a sud di Roma (1991) di Gianfranco Pannone, film di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia sulle bonifiche degli anni ‘30 e i nuovi insediamenti rurali e urbani. Scarno e rigoroso, girato in bianco e nero e senza voce off, è Boatman (1993) di Gianfranco Rosi, su Benares e il Gange. Figlio tardivo ma non per questo meno significativo del cinema diretto, così poco frequentato in Italia, è Fine pena mai (1994-95) di Enrica Colusso, non a caso formatasi a Londra, che segue senza retorica la vita quotidiana di quattro ergastolani nel carcere di Porto Azzurro.

Volendo concludere questa mappa con delle indicazioni per il futuro sceglierei due film.

Il primo è La cosa (1990) di Nanni Moretti, scarna ed essenziale serie di interviste a militanti comunisti realizzate a caldo dopo la crisi del comunismo internazionale e prima del cambiamento di nome del PCI in PDS: è un esempio di come fare documentario televisivo in maniera efficace, senza ricorrere a sotterfugi tecnici e a inutili spettacolarizzazioni. Il secondo è un film in 16mm di 148’ intitolato Noistottus (in sardo vuol dire “Noi tutti”), realizzato nel 1987 da due ex allievi del CSC, Piero D’Onofrio e Fabio Vannini: attraverso interviste dal vero, interviste ricostruite, materiale d’archivio e riprese documentarie questo film ripercorre la storia e le lotte dei minatori sardi dal 1906 a oggi. Si tratta di uno dei più bei documentari del cinema italiano, esemplare per l’uso delle varie tecniche, fiction compresa, e soprattutto per il modo inedito con cui esse si alternano in fase di montaggio nei vari segmenti del film; Noisottus è qualcosa di più di una bella ricostruzione storica o di un efficace documentario didattico: è la proposta di un modo nuovo e libero di concepire il documentarismo, un esempio di cinema saggistico. Che questo film sia rimasto praticamente sconosciuto la dice lunga sull’emarginazione di cui ha sofferto, soffre e certamente soffrirà ancora il documentario in Italia (9).
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Scritto di Adriano Aprà, Critico e saggista cinematografico, autore di documentari

Estratto da A proposito del film documentario, «Annali» dell’Archivio audiovisivo
del movimento operaio e democratico, 1, Roma, 1998, pp. 40-67

Aprà – Primi approcci al documentario italiano

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(1) Se relativamente numerosi sono gli interventi “politici” e “teorici” sul documentario e sul cortometraggio italiano, scarsissimi sono i tentativi di bilancio critico sugli autori e sulle opere. Ricordo, per quanto datati, tre articoli: Il documentario di Ermanno Contini, in Il neorealismo italiano, Quaderni della Mostra di Venezia, 1951, pp. 27-40; Il documentario di Giacomo Gambetti, in 20 anni di cinema italiano, a cura del SNGCI, 1965 (volumetto fuori commercio), pp. 201-217; Dieci anni di documentario in Italia (1955-1965) di Claudio Bertieri, in «Civiltà dell’immagine», 1, luglio 1996, pp. 29-35. Preziose finiscono per essere le rubriche di recensioni di cortometraggi in «Cinema» vecchia e nuova serie, in «Cinema nuovo» e in «Rassegna del film» (più sporadiche quelle in «Bianco e nero»), che però coprono tutte, nel dopoguerra, solo gli anni 1951-1958. Un’utile antologia di articoli sul documentario e il cortometraggio (anche non italiano) è Il cinema allo specchio. Appunti per una storia del documentario, a cura di Giampaolo Bernagozzi, Quaderni di documentazione cinematografica, 5, Bologna, Patron, 1985. Deludente è l’unico tentativo di sistemazione storica complessiva: Il cinema corto. Il documentario nella vita italiana dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, di Giampaolo Bernagozzi, Firenze, La Casa Usher, 1979. Preciso e stimolante, anche perché basato su una fresca visione dei film, è invece L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo di Mino Argentieri, Firenze, Vallecchi, 1979, che purtroppo non si occupa, per scelta, dei cortometraggi non di propaganda, che sono spesso quelli migliori. Utile per la situazione recente è il “libro bianco” Il documentario in Italia: sopralluoghi, a cura del SNGCI (opuscolo fuori commercio), novembre 1994.

(2) Non esiste né un elenco né tanto meno una filmografia dettagliata dei cortometraggi realizzati in Italia. Si tratta, ne convengo, di un’impresa difficile, se non disperata, specie se si tenesse conto, come si dovrebbe, di quelli prodotti – soprattutto in tempi recenti – in maniera indipendente (e casomai in video) e non sottoposti a visto di censura. Di quelli sottoposti a visto di censura sta comunque avviando un repertorio esaustivo Pierluigi Raffaelli nell’ambito dell’Archivio del Cinema Italiano istituito presso l’ANICA.

(3) Alfredo Baldi, Le Riviste Cines, in «Immagine. Note di storia del cinema», 1, 1981, pp. 11-12, e I documentari della Cines, ibidem, 5, marzo-giugno 1983, pp.5-9, poi rielaborati in Cines in corto, ibidem, 20 (nuova serie), primavera 1992, pp. 18-24.

(4) Mino Argentieri, L’occhio del regime, cit., pp. 96-98; si veda ora anche Silvio Celli, «La gazza ladra» film futurista di Corrado D’Errico, in «Cinegrafie», 9, 1996, pp.129-136.

(5) Mino Argentieri, L’occhio del regime, cit., pp. 107-109.

(6) Due altri cortometraggi di Rossellini sugli animali realizzati nello stesso periodo, La vispa Teresa e Il tacchino prepotente, sono stati di recente ritrovati e restaurati dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino. Le sceneggiature desunte sono state pubblicate in «Il Nuovo Spettatore. Cinema-video-televisione-storia», 1 (IV serie), novembre 1997, pp.117-145.

(7) Distinguo “suono diretto” da “suono in presa diretta” intendendo col primo il suono registrato dal vero nel corso delle riprese ma, per problemi tecnici, non in sincrono con le immagini; col secondo il
suono registrato in sincrono con le immagini. Con “suono d’ambiente” intendo invece quello ricavato attingendo alle sonoteche in fase di montaggio, e che si potrebbe anche definire suono “doppiato”. Va tenuto presente che fino a tutti gli anni cinquanta il suono in presa diretta è possibile solo con attrezzature molto pesanti e a costi proibitivi per dei cortometraggi, e in Italia lo si riscontra infatti quasi solo nel caso di riprese in studio di film di finzione, almeno fino a quando – dai primi anni ‘40 – non comincia a prevalere la pratica del doppiaggio. Prima degli anni ottanta, è eccezionale il caso di film girati in esterni in presa diretta, almeno in Italia (penso p. es. a Paisà, in parte, e a La terra trema e Bellissima). Il suono in presa diretta nei cortometraggi e nei documentari è praticamente possibile, anche
fuori d’Italia, solo agli inizi degli anni sessanta grazie all’introduzione di registratori portatili e di macchine da presa 16 mm leggere e insonorizzate. Antesignani di questa pratica che rivoluziona il modo di fare documentari sono Primary (1960) di Robert Drew, Richard Leacock e altri e Chronique d’un été (1960-61) di Jean Rouch e Edgar Morin.

(8) Questo cortometraggio, che secondo il visto di censura d’epoca dura 21’ (m 499), è oggi conservato per quanto mi risulta in due versioni entrambe più corte: una di circa 15’ (e in 16 mm) presso la cineteca del Festival dei Popoli a Firenze, l’altra di 11’ presso quella del Luce, priva di commento fuori campo scritto da Emilio Cecchi, senza nome del regista e col titolo Pellegrinaggio.

(9) Questo saggio, qui riproposto con qualche minima integrazione, è stato pubblicato, col titolo redazionale Itinerario personale nel documentario italiano, in Studi su dodici sguardi d’autore in cortometraggio, a cura di Lino Micciché, Torino, Associazione Philip Morris – Progetto Cinema/Lindau, 1995, pp. 281-295.

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